La musica, i suoi drammi, i suoi figli. Racconto di un caso
Una sola volta ho avuto un paziente musicista. Non mi è accaduto di averne altri.
La musica accompagna molta parte della vita compresi certi rituali con le sostanze, in particolare con la cannabis e l’ecstasy o comunque tante droghe girano nei posti dove c’è musica, tipo le discoteche, i rave o anche nella solitudine di una stanza.
Ma questo era un musicista. Un vero musicista.
Non ho iniziato il rapporto con lui ma con la madre. Venne a parlarmi con sincerissima disperazione e soprattutto con stupore; non riusciva a capire le ragioni per cui il figlio adorato avesse cominciato a farsi. Al colloquio era sola, senza il figlio che non aveva voluto esserci.
Così mi diceva: “A farsi, capisce, no?”.
Già l’uso di questo termine mi stupiva. Aveva raccontato a qualcun altro della vicenda e appreso la gergalità che specificava quanto lei temeva che fosse accaduto.
Gli era stato consigliato di rivolgersi ad un operatore.
In realtà il figlio non si faceva secondo il vero significato del termine.
Non si trattava di eroina ma, lo stesso, il caso non era semplice.
Ero personalmente interessato alla vicenda del musicista perché anch’io adoravo la musica e certe cose mi sembrava potessi capirle. E poi ero curioso della vicenda.
Ho pensato alla solita storia dell’artista che sconfina nella eccessività comportamentale per simpatia, perché sballare è parte della sua figura e forse anche delle sue esigenze creative.
La madre non seppe raccontarmi la ragione delle stranezze del figlio perché non poteva.
Il fatto, secondo lei “di farsi”, impediva altri ragionamenti. Si fermava lì. Non c’era altro da dire.
Bisognava aiutarlo a non usare più quella roba.
Però anche io non comprendevo né intuivo.
Tutto nasceva dalla musica.
La musica è un inganno; un grande, meraviglioso inganno. Entra nelle nostre orecchie e stupisce le intimità sentimentali. Siamo così d’accordo che ci pare di toccarla, di essere certi che potremmo possederla. È più di un’amica, pensiamo con illusione.
A lei confidiamo parole che non sappiamo dire, immaginiamo come nei sogni, magnifica il cuore e ci lusinga. Ascoltarla e ospitarla è naturale. È semplice.
Farla, nel senso di studiarla a fondo e divenire un professionista, è tutta un’altra faccenda.
La musica ama solo i suoi figli, quelli che almeno considera tali.
Anche a costoro si concede però con parsimonia, con riluttanza e misurata munificenza; in cambio pretende una dedizione assoluta. In pochissimo tempo può anche abbandonare le sue vestali e così ogni giorno va ossessivamente onorata. I piaceri non sono pochi ma alle condizioni dette.
(Tralascio le ragioni di tanta ritrosia…dovrei ragionare delle neuroscienze…in sostanza per il cervello è una gran fatica lavorare la musica…vuole solo goderla.)
Per quelli che, al contrario, sono parenti spuri, la relazione con la musica può divenire un matrimonio che riesce malissimo. Per questi sfortunati che non hanno avuto in dono dalla natura un soddisfacente talento la musa diventa imprendibile e cattivissima.
Cadere nell’inseguimento caparbio al fine di possederne l’essenza può dare molta infelicità e frustrazione. Irrisolvibili, peraltro.
Molto meglio per coloro che non sono illusi o blanditi dal supposto talento, perché non si cimentano e semplicemente ascoltano.
Quel musicista venne a trovarmi qualche giorno dopo la mamma e mi raccontò.
Suonava il sassofono in un gruppo e questo andava bene. Quello che lo inquietava molto era che gli sembrava di non progredire. Non lesinava la fatica, studiava molto e a volte era anche contento.
Ogni passo in avanti lo faceva sperare.
Diceva anche che spesso si emozionava quando suonava e allora si perdeva. Quando un musicista si perde cade in una sorta di panico angosciante; non sa dov’è.
Uno del gruppo gli disse che per i concerti usava i beta-bloccanti, che lo calmavano, toglievano l’ansia e la preoccupazione. Questi farmaci vengono assunti per l’ipertensione soprattutto ma sono anche considerati, per gli atleti, sostanze dopanti dati gli effetti ansiolitici e cardiovascolari.
Migliorano le prestazioni e così procurano un vantaggio rispetto agli altri concorrenti.
Molti oratori o molti di quelli che lavorano di fronte al pubblico li utilizzano.
Poi i farmaci prendono la mano e niente più viene sedato; si aumenta la dose ma questo imbroglio non finisce più. Allora bisogna cambiare.
La sostanza che meglio può imbrogliare un musicista è la cannabis; con questa i suoni vengono percepiti in modo inusuale, si materializzano quasi. É una specie di dispercezione uditiva (un po’ come accade con il cibo saporito più che mai), una allucinazione uditiva. Si può dire che è un effetto tra i più piacevoli della marijuana. Solo che la marijuana non consente una fine discriminazione della qualità di quanto giunge all’orecchio; tutto sembra buono, anche le schifezze.
Per un musicista questo non va benissimo; certo, migliora l’abbandono, induce distensione, forse anche il languore ma questo può non convenire perché bisogna invece stare attenti, molto attenti quando si suona.
In più, tra le spiacevolezze della pianta c’è che può produrre uno stato di ansia sino ad uno stato di paranoia. Spiacevolissima condizione. Lui si perdeva del tutto.
Bisognava cambiare ancora.
Che prendere ? Nel frattempo, i progressi rallentarono del tutto. Era fermo e disperato.
Allora le amfetamine: lucidi, presenti, infaticabili, senza orario.
Nessuna paura; in concerto si rende tanto.
Lui però era un tipo fragile. Dopo un po’ sopraggiunge l’astinenza con l’urgenza incontrollabile quando non assunte e il nervosismo, l’ipereccitabilità, l’instabilità di quando assunte.
Progressi nessuno e aveva abbandonato i concerti; non sapeva che fare.
Bisogna darsi una calmata, allora.
Qui però sopravvenne la fortuna. Lui ebbe paura degli oppiacei; mi diceva che sapeva di tante vite di musiciste finite male per quella “merda”.
Quando venne a parlare con me non assumeva quasi più niente. Poche volte la marijuana con il timore della paranoia e della madre che sentiva l’odore e iniziavano le discussioni.
Era fondamentalmente divenuto un depresso e se ne stava chiuso in casa; aveva abbandonato tutto.
Il nostro rapporto continuò per diverso tempo.
A lui piaceva venire da me perché parlavamo soprattutto di musica. Questo lo riavvicinava alla sua amata, piano piano. E di questa parlavamo a lungo; io non avevo il talento ma lo capivo anche quando si addentrava nelle complessità. Si, a me sarebbe piaciuto molto suonare per bene.
Lo apprezzavo. Un bravissimo paziente.
Fece un trattamento antidepressivo per quasi 5 mesi. Andò tutto bene.
Insegna musica in una scuola e in un carcere.
g.montefrancesco