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dott. Giuseppe Montefrancesco

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Chiara sapeva tutto; il dolore, gli oppiacei. Storia

Chiara sapeva tutto dall’inizio. Ha sempre saputo tutto, dal giorno che l’hanno gastroresecata. Dai disturbi digestivi al bruciore di stomaco si era poi ritrovata con un cancro allo stomaco.

Molti conoscono l’iter: chemioterapie, diete etc, ma intanto la vita, la tua e quella di chi ti vive accanto, va a rotoli. All’inizio la malattia si fa centrale, perno delle esperienze quotidiane di tutti quelli che ti girano intorno. Tutti presi nel vortice e al centro di tutto, forza motrice invisibile ad occhio nudo, il cancro. La figlia adolescente comincia a trascorrere sempre più tempo fuori casa con gli amici. La ragazza fuma, in casa di nascosto e in cameretta, con gli amici, fuma anche qualche spinello, Chiara si arrabbia.
Gli orari di rientro a casa si smussano, la ragazza rientra come vuole e quando vuole. Chiara si arrabbia ma sempre più flebilmente.
Il padre fatica a cucire insieme l’esperienza di malattia della moglie con la fuga nella vita della figlia, e riprende a fumare anche lui. Chiara era il collante tra quel padre e quella figlia; Chiara era rassicurante per la capacità di sdrammatizzare e legare ogni accadimento nel logico fluire delle loro vite. Chiara era il principio ordinatore.
Pian piano la malattia la sfiniva, non aveva più la forza svolgere quei compiti di cura che danno benessere a tutta la famiglia.
In tre anni sono entrate e uscite di casa tre donne, per pulire e cucinare. Donne pagate per svolgere le mansioni di cui si era sempre occupata lei con competenza. Presenze estranee che diventarono dapprima familiari e poi indispensabili.
Intanto il dolore si faceva strada nel corpo e nella vita di Chiara, quel dolore che si ripresenta, che leva il sonno.
E con il dolore è arrivato il disordine. E la vita nella famiglia di Chiara si è fatta sempre più caotica.

Alcuni hanno una visione ideale del dolore, il dolore come purificazione, come espiazione delle umane imperfezioni e in questo senso vorremmo che il dolore fosse vissuto con raccoglimento, con sopportazione, con compostezza; come se potesse essere contenuto nell’interiorità e non dilagare all’esterno. Ma nella realtà il dolore si espande attorno, produce frammentazione, separazione, disordine incontrollato fino all’annullamento di ogni esperienza di benessere. La sofferenza contagia gli altri membri della famiglia e gli amici. Allora forse è meglio sedare quel nucleo da dove emerge.
Così dopo due anni di malattia Chiara ha cominciato a prendere l’oppiaceo.
Ha cominciato per non lamentarsi di notte, affinché il marito potesse dormire e andare a lavoro il giorno dopo. Ha continuato per non chiedere continuamente e inutilmente dove fosse sua figlia, ma anche per non interferire con le mansioni di chi, di volta in volta, la stava accudendo. Non ultimo per soffrire meno per le assenze o per i conflitti. Per realizzare una parvenza di un nuovo ordine, che si sarebbe dato e mantenuto mentre lei stava assopita.

 “Mi hai portato i farmaci?” era la domanda con cui accoglieva il marito.

E dopo breve tempo già supplicava: ”Dammene ancora, una compressa non mi basta”. Se il marito provava a limitargliene l’uso Chiara si arrabbiava e litigava. Voleva gestire da sola il suo bisogno. La cosa le aveva preso la mano e lei sapeva anche questo. Mi piace pensare che al di là del bene e del male, in qualche modo lei stesse difendendo, assentandosi nello stordimento farmacologico, un po’ di quiete per la propria famiglia, e li stesse accompagnando in una prova generale sulla sua futura assenza, per dare modo a tutti loro di riorganizzarsi in un nuovo ordine.
Forse, alla fine, sapeva anche questo.