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dott. Giuseppe Montefrancesco

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EMCDDA: Campagne comunicative di riduzione del danno? Non funzionano

Quest’anno la Relazione Europea sulla droga è stata accompagnata da una serie di documenti integrativi denominati “Prospettive sulla droga”.
Prima tra tali prospettive citate, l’analisi presentata in un breve articolo sulle campagna comunicative di massa dedicate al tema della prevenzione dell’uso di droga tra i giovani. Nate negli anni ’70 con una storica iniziativa dedicata al miglioramento della salute cardiovascolare, la campagne comunicative di massa a carattere socio-sanitario hanno interessato gli ambiti più disparati, dal cancro alla violenza domestica, con modalità differenti unite da un unico grande denominatore: parlare ad un pubblico di riferimento caratterizzato da una condizione ben precisa di disagio o patologia.

Negli stessi anni iniziarono ad apparire sui mass media tradizionali e non alcune campagna informative centrate sul fenomeno tossicodipendenza, con particolare riguardo per la prevenzione del consumo di tabacco, alcol ed altre droghe illegali (su tutte l’eroina).
Il dibattito sui risultati di queste campagne fu da subito molto acceso. I messaggi promossi erano infatti centrati sull’idea che attraverso un’informazione più o meno concisa circa condizioni e minacce derivanti da un determinato comportamento, la popolazione lo avrebbe progressivamente abbandonato. I risultati però dicevano spesso il contrario. I fenomeni patologici, nonostante quest’azione informativa, aumentavano e soprattutto ciò avveniva molto chiaramente quando si trattava di tossicodipendenza.

A conferma di questa tesi arriva oggi la meta-analisi del European Monitoring Centre of Drug and Drug Abuse (EMCDDA) realizzata su 23 studi (posti in essere dal 1991 al 2011 in Canada, Australia e USA) che hanno cercato di valutare la capacità delle campagne comunicative di massa di influenzare l’uso di droghe o l’intenzione all’uso o quantomeno l’attitudine verso le droghe illegali da parte dei giovani sotto i 26 anni di età.
In termini assoluti questa campagne sono inefficienti ed inefficaci.
Le campagne mediatiche che mirano a prevenire l’uso di droga fornendo alla popolazione informazioni su di essa sono fondate sul sostegno di almeno tre teorie scientifiche conclamate. Quando lavorano sulla diffusione di informazioni specifiche si poggiano sull’Health Belief Model di Glanz (Glanz. et al., 2002) che lega deterministicamente il comportamento salutare alla consapevolezza della condizione di corretta salute psico-fisica e quindi dei benefici legati a tale stato. Quando invece operano sulla coscienza intenzionale delle persone, ovvero sul fornire sostegno ad una sorta di scelta “legale e salutare”, lo fanno sulla scorta della teoria dell’azione razionale di Ajzen (Ajzen, 1991) la quale pone ogni comportamento come conseguenza di una scelta intenzionale frutto di tre componenti: predisposizione individuale ad essa, interiorizzazione delle norme sociali relative a quel comportamento e infine il controllo percepito rispetto ad ogni propria azione. Quando infine le campagne mediatiche si concentrano sulla demonizzazione dei messaggi pro-consumo derivanti dai “peers” ovvero i pari grado – amici, colleghi, coetanei – si poggiano sulla “Super peer theory” di Strasburger (Strasburger et al., 2008) che postula la necessità di contenere la normalizzazione del comportamento di consumo e abuso, agendo proprio sulla denuncia della sua mistificazione di condizioni nei fatti negative.

A prescindere tuttavia da ciascuna di queste “giustificazioni” scientifiche, la meta-analisi pubblicata dal EMCCDA attesta l’inefficacia nel generare il risultato atteso. I giovani sottoposti a tali campagne hanno continuato a consumare secondo trend perlopiù costanti. Almeno questo hanno risposto quanti sono stati raggiunti dai 23 studi comparati, fondati su questionari che gli stessi autori ammettono comunque non precisamente accostabili (ponendo una forte riduzione del grado di correttezza relativa alla tesi finale partorita). La questione dell’efficacia di campagna comunicative tese a modificare un comportamento umano è poco trattata in termini scientifici ed il merito di questa meta analisi è indubbiamente quello di aver spostato l’attenzione su un processo di verifica ad oggi spesso trascurato.
Se infatti le campagne comunicative sul fenomeno addiction non funzionano, à necessario capire il perchè ed eventualmente cogliere il senso di questo risultato negativo. Benché resti sempre sullo sfondo l’antico adagio che ci impone di valutare come lo studio di ogni fenomeno sociale – quale una campagna mediatica è – ha in sé la problematicità di non poter studiare esattamente la stessa situazione sulla stessa popolazione in assenza di esso (ovvero l’impossibilità di dire “studio la campagna e i suoi effetti sulla popolazione” e in contemporanea “studio gli effetti senza che ci sia la campagna”), è importante sottolineare due elementi centrali sulla tesi sostenuta da questo documento del EMCDDA. Primo. Le campagne mediatiche tese a prevenire la prima esperienza di consumo o l’abuso di sostanze stupefacenti sono inevitabilmente fallimentari quando si propongono di riuscire a generare una modifica strutturale del comportamento con mezzi così occasionali e temporanei.

Qualsiasi comunicatore sa che le campagne mediatiche hanno il solo scopo di attirare l’attenzione ed operare su attribuzioni identitarie (riconoscimento di un marchio, memorizzazione di un riferimento come un sito web o un numero di telefono o uno slogan). Quindi scopo di una campagna mediatica occasionale non può essere evitare che i ragazzi provino una sostanza stupefacente, ma porre attenzione sul fatto che qualcuno, con autorevolezza, sostiene la necessità di stare attenti o di evitare tale sostanza. Secondo. L’azione socio-sanitaria tesa a modificare comportamenti ritenuti non salutari ha la necessità di avviare e gestire processi comunicativi permanenti più che campagne mediatiche occasionali. Questo significa operare per raggiungere un pubblico di riferimento definito, conosciuto e riconosciuto, nell’idea di creare con esso una circolarità comunicativa costante basata sull’assistenza alle necessità conoscitive e sull’interscambio informativo. I teorici del marketing commerciale la chiamano fidelizzazione con finalità di co-creazione del valore, ad esempio, di un marchio; noi potremmo definirlo servizio pubblico avanzato: i cittadini più autorevoli dialogano con i cittadini potenziali pazienti allo scopo di non renderli tali in termini di patologia ma tali in termini di cura.

Almeno comunicativamente parlando.

Dr. Francesco Sanna