Ho riletto più volte la storia inviata dal lettore. L’ho letta più volte per capire se il senso di speranza che mi trasmetteva fosse il risultato di un artificio letterario o l’effetto della verità di un’esperienza dalla quale si potesse imparare qualcosa di utile per la vita di ciascuno di noi. Non volevo sbagliarmi. Non volevo illudermi. Non stare a riassumere le fasi di questo caso clinico.
Voglio invece soffermarmi su due o tre aspetti salienti, almeno per me. Da un lato credo che in molti possano ravvisarvi la superficialità e la leggerezza con cui alcuni medici assegnano o sospendono terapie farmacologiche, in modo sbrigativo e frettoloso. Quasi fossero guidati dalla certezza, più o meno consapevole, che o il farmaco cura o non c’è cura possibile, e questo basandosi su dei dosaggi standard che non necessariamente corrispondono al dosaggio perfetto per una singola persona. La giusta quantità e il giusto tempo di somministrazione sono due categorie che richiamano a un rapporto con la cura e con il tempo che ormai è sempre più difficile trovare nelle relazioni terapeutiche dominate dalla fretta e dall’approssimazione agli standard. La fretta più che l’incompetenza fa scambiare una crisi psicotica da astinenza, per una problematica sottostante e antecedente alla fibromialgia cronica una volta che questa sia rimessa?
A fronte di questo atteggiamento pericolosamente superficiale di alcuni medici c’è un grande gesto di presa in cura da parte del paziente di sè stesso e questo comincia con una grande domanda che verte sul tempo. Prendersi il tempo è il primo atto terapeutico. Prendersi il tempo per capire se stesso in relazione al farmaco, il tempo della propria cura disintossicante, il tempo di scalare. Prendersi tutto il tempo che ci vuole ascoltando il proprio corpo e la propria mente, prestando attenzione ai segnali che questi mandano. (Qualcosa di analogo al caso a noi noto di chi ha provato a smettere di fumare scalando le sigarette nel tempo, concedendosi solo quelle che attutivano la crisi di astinenza, fino a sentir crescere in sè la speranza che forse ce la si può fare.)
La mente è la nostra prima farmacia, l’io il nostro primo farmacista, i farmaci sono le sostanze che dobbiamo introdurre in costante equilibrio con i mediatori che il nostro stesso cervello rilascia per incoraggiarci in un percorso di recupero alla normalità dopo uno stato alterato dall’abuso di sostanze, anche se regolarmente prescritte. Sentire di farcela a scalare da un senso di recupero del proprio sè che alimenta positivamente il processo disintossicante. Non voglio sottovalutare il ricorso alla rete, ad internet per raccogliere le informazioni che il nostro autore non trovava tra i conoscenti e medici curanti. Ma alla potenza del mezzo internet, lui preferisce contrapporre il ‘buon senso’. Un buon senso antico e saggio, molto diverso dal senso comune che spesso suggerisce di delegare all’esperto di turno la nostra salute, pur di non prendersi il tempo per cercare, capire e sperimentare le proprie risposte nell’aver cura di sè. Nuovi pazienti crescono e pongono la domanda di una diversa relazione terapeutica, più attenta alle specificità individuali.
Saranno pronti i medici, la scienza e l’industria farmaceutica per questo?