Gentile signora, grazie per la sua storia con le benzodiazepine, però mi lasci dire che quello che più colpisce non è tanto il fatto che sia ricorsa a questo farmaco per cercare un po’ di sollievo alle sue ansie, quanto il fatto che lei dichiari di andare in psicoterapia da circa trenta anni. Questo sì che è un dato anomalo. Non possiamo sapere niente sulla bravura o meno dei suoi psicoterapeuti, la domanda ovvia è come mai lei non si sia mai stufata di questa pratica che, nel suo caso, appare inutile o comunque poco efficace salvo forse nell’aiutarla a contenere le emozioni in una forma socialmente accettabile.
Che lei non sia dipendente dalle psicoterapie? Che non mantenga i suoi sintomi ansiosi per avere il pretesto di praticare la conversazione ad alto livello? A livello specialistico? La pratica della psicoterapia si basa una forma particolarmente attenta di ascolto. Si è ascoltati e si impara ad ascoltarsi. Se fosse così lei sarebbe irretita da questo infinito intrattenimento’ perchè vi trova un piacere che non trova altrove. Immagino l’impazienza che deve coglierla dopo trenta anni di psicoterapia quando nelle relazioni fuori dal setting le si offre un ascolto, come dire? Ordinario, quello un po’ distratto che a volte può venirle da una persona comune, magari un’amica, forse più smaniosa di parlare di sè che di ascoltarla, o da sua marito spesso preoccupato per beghe di lavoro o perchè ha un mutuo da pagare.
Pochi giorni fa mi è capitato di leggere un articolo di Stefano Bartegazzi, sulla fine della conversazione a causa dei mezzi tecnologici che ci abituano a ‘comunicare a’ più che non a ‘comunicare con’, mezzi che favorendo le comunicazioni a distanza ci privano della pratica della conversazione che offre la possibilità di uno scambio empatico tra le persone. Questo perchè la conversazione contiene momenti di silenzio e parole non sempre interessanti, perchè la conversazione può essere noiosa quando siamo abituati a ricevere mille risposte più eccitanti con un clic. Naturalmente c’è anche chi, come lo scrittore Claudio Magris, pensa che la comunicazione a distanza non levi niente alla conversazione tra due innamorati al ristorante, i quali, aspettando le portate, anziché parlarsi si perdono, a tratti, nelle comunicazioni sui rispettivi smartphone. Ilvo Diamanti ha scritto di una diminuzione della fiducia negli altri quanto la comunicazione si riduce a messaggi lanciati a distanza. Viviamo in una civiltà sempre più atomizzata e automatizzata. Una civiltà a misura di singolo e non di relazioni. Queste ormai sono frammentate e il mercato ci offre mille proposte di specializzazioni: abbiamo tate per i figli, abbiamo badanti esperte per gli anziani, abbiamo maestri di calcio e personal trainer per il movimento, abbiamo scuole e maestri di ballo per divertirci, abbiamo esperti per qualsiasi cosa.
Tutte le competenze relazionali si sono trasformate in saperi da tradurre in professioni per fornire servizi a pagamento. Gli psicoterapeuti prosperano, diminuiscono i preti, e aumentano anche coach life che ci insegnano a vivere o sopravvivere in questo mondo.
Siamo sempre più dei clienti o dei pazienti e a volte entrambi contemporaneamente. Leggendo i classici si scoprono cose che ci fanno riflettere sull’oggi, a me è capitato leggendo Oblomov. Un classico della letteratura russa che parla fondamentalmente della storia di una grande amicizia. Ad un certo punto si racconta cosa accadeva nella casa Oblomov da bambino; siamo nella metà dell’ottocento, nel suo paese natio, durante la sua infanzia, riunendosi in circolo, si narrava ciò che ciascuno aveva visto in sogno la notte”. Se il sogno era spaventoso, tutti si mettevano a meditare, se era profetico tutti si rallegravano o si rattristavano sinceramente, a seconda del tipo di sogno, triste o consolatorio. Se il sogno esigeva il ricorso a qualche scongiuro, immediatamente venivano prese energiche misure in tal senso.
Questa cosa bellissima accadeva alla metà dell’ottocento, quando i libri erano un bene prezioso solo per le poche persone alfabetizzate, inconcepibili erano radio e tv, per non parlare di internet, tutto questo accadeva circa un secolo prima dell’invenzione della psicoanalisi. Ci parla di un tempo in cui tutto non era parcellizzato.
Di un tempo in cui c’era tempo, per ascoltare e ascoltarsi.