Volevo scrivere di questo da tanto tempo ma mi è sempre stato difficile porre mano a quanto voglio trattare. Lo farò adesso con passione e quasi senza controllo, con la consapevolezza che potrei ancora una volta non saper dire o spiegare. E comunque, prima, le mie scuse.
Domenica mi sono arrabbiato, un pò stizzito (come dico nel parlare di sempre) perché ho letto su Repubblica l’articolo a pag. 55; in verità qualcuno mi aveva avvertito che c’era e io ho letto.
Diceva di cose su cui rifletto e di cui ho parlato tante volte. Diceva del mio lavoro, perché io non avrei mai capito delle emozioni se non avessi studiato le droghe. Con queste si va verso il basso, si intravede il profondo; laggiù si va in apnea perché è un lusso il respiro; laggiù l’anima si fa intravedere. Dico l’anima e voglio indicare quella casa senza pareti dove penso i sentimenti nascano in massa e le emozioni sono tinte di rosso. Non so veramente immaginare di queste; è come se fossero niente di carne. Si sentono nella incapacità di tenerle ferme, nella voglia a volte incontenibile e assoluta di soddisfarle. Piacevolissimamente. Ci sono voluti gli anni per parlare con loro e disporle entro naturalità senza peccato. Ora mi pare di poter ragionare del desiderio che non ci abbandona mai, che non sappiamo da dove viene; che ci spinge; che a volte ci insulta e indebolisce. La casa delle emozioni credo sia potentemente anarchica, come quella di tutti, nella completa disposizione a tradire ma senza peccato. Naturalmente, ma senza peccato. Questo ho capito dopo aver annusato, studiando, l’essenza delle sostanze e la loro potente malia.
La prima volta che ho visto da vicino un mio paziente, il fatto risale a tanti anni fa ed allora ebbi impressione. Del viso. In verità io non guardavo il viso nella suo tondo, nel suo ovale pieno; sfumavo la parte centrale, gli occhi, le labbra e mi disponevo sul profilo perché così non c’era. Riparavo la mia funzione di medico dall’indecenza di un uomo che era separato dalle cose di sempre con gusto e tanto piacere. Lui cantava e muoveva fuori di se, cioè faceva vedere il bene e il piacere. E non era una donna. La sua faccia era arrossata, le orecchie avvampate come di un caldo un po’ sconcio. Rideva e non aveva riguardi. La sua era pura voluttà, puro appagamento, assoluto abbandono ad un dio ad altri nascosto. Quindi, forse, non era normale? Forse quell’eroina dava indicibili cose? Ebbi spavento e ho spesso pensato ai suoi modi da fatto anche quando ora lo vedo e parlo con lui. Gli do sempre la mano e in qualche modo lo tocco. Gli do riverenza perché lui mi ha fatto capire. Cerco ancora tra le rughe di quel paziente oramai uomo, con anni che non so se dire sbagliati, se fa ancora lo stesso. Era la prima volta che osservavo un sentire così voluttuoso mostrato all’esterno, ad altre persone, senza vergogna. Pensavo che lui avesse fatto un qualche peccato. Terribile, orribile e senza confini.
Ma dove e perché ? Io ho sempre studiato i fatti che stavano nella sanità dei miei casi in una associazione di concetti e di idee che dovevano, dico dovevano, spiegarli sino a colui che ammalava e c’era una ragione per questo. Quindi seguivo i nodi di questa lunghissima logica. Poi avrei capito. E così ho sempre fatto.
Quella volta e tante altre volte però c’era qualcosa di più. Quella sostanza toccava e scherniva la prigionia entro cui volevo tenerla, non per prepotenza ma perché così è e così tanto capivo.
Così era scritto.
montefrancesco