Promozione bamba; promozione cocaina
Giorni fa sono andato a Firenze. Imboccata la via senese, all’altezza di Bottai, poco dopo il “lungo” cantiere del parcheggio, ho visto una scritta campeggiare su un muro. Era una scritta grande, d’un autore che dalla calligrafia ho dedotto poco più che adolescente, e recitava: “W LA BAMBA”. Volendo riprendere i dati del principale Osservatorio Europeo sulle tossicodipenze, questo promozionale correttamente interpretabile da circa il sei percento della popolazione, trattandosi di pubblicità che utilizza un termine gergale di definire la cocaina.
Questo significa che mentre per circa novantatre persone su cento, quella scritta forse uno strano incitamento alla celebre canzone di Ritchie Valens, sette su cento hanno “capito bene”. In altre parole sette su cento possono passare davanti a quella scritta, leggerla e sapere di che si sta parlando. Qualcuno riderà, qualcun altro si arrabbierà. Altri lo prenderanno come un qualsiasi promozionale.
Il mondo della comunicazione visiva è basato sulla legge del riconoscimento. Tre anni fa la Questura di una nota città italiana telefonò ad un tipografo che aveva stampato, per conto terzi, diversi adesivi con cui qualcuno aveva letteralmente riempito molti spazi pubblici del centro urbano, allargandosi anche alla provincia circostante. La Questura non era tanto interessata al fatto che qualcuno avesse attaccato quegli adesivi, quanto al “perchè” lo aveva fatto, intendendo con questa indagine scongiurare l’ipotesi “anarco-insurrezionalista” (“questo adesivo non è mica di un gruppo anarchico?”).
L’episodio è molto interessante perchè ci richiama l’idea dell’importanza del messaggio in funzione non tanto della sua forma, quanto della sostanza che qualcuno ci riconosce dentro. Se il Comune di Firenze “sapesse” che “W LA BAMBA” significa “W LA COCAINA” cosa farebbe? Ma soprattutto quando l’alfabetizzazione ad un linguaggio smette di essere innocua e diventa pericolosa?
La risposta alla domanda che ritengo più stimolante – ovvero la seconda – probabilmente legata allo sviluppo di una cultura.
Il linguaggio (in questo caso “gergale” o “gruppale”) ha da sempre il mandato di consolidare (co-creandola) un’identità, ma prima di tutto ha il compito di dividere e discriminare. I detenuti, ad esempio, usano codici – spesso diversi da carcere a carcere – proprio per “tagliare fuori” dalla comprensione secondini e operatori socio-psico-pedagogici. Questo consente la circolazione di un sistema culturale (trasmesso, e per qualcuno basato, sul linguaggio stesso) che altrimenti sarebbe presto o tardi attaccato dai gestori del processo rieducativo. Ora, questa “ignoranza” dell’istituzione nei riguardi del linguaggio gergale per certi versi insuperabile (i motivi sono molti e non sintetizzabili in questo articolo) ma ciò non dovrebbe indurre chi può a provarci. Infatti l’istituzione può essere “più” o “meno” sensibile alle sottoculture espresse con gerghi propri e, mi slancio, “dovrebbe” cercare d’esserlo proprio per cogliere col dovuto anticipo l’evoluzione di fenomeni che altrimenti escono alla luce del sole solo quando hanno ormai sedimentato la loro forza “additiva”.
Come nel film “L’Onda” si può arrestare un processo dipendentizzante, prima che sfugga di mano, ma solo prima di una certa soglia.
Quando sui muri delle città iniziano a comparire scritte come “W LA BAMBA”, quando in televisione i comici usano il doppio senso “ti piace la bamba” e qualcuno per dire che ha bisogno di energia la mattina sostituisce al consueto “mi ci vuole un caffè” un innovativo “mi ci vorrebbe una pista di bamba”, il fenomeno è sempre arrestabile, ma con molta più fatica e purtroppo molto più travaglio.
Dr. Francesco Sanna